Essere o non essere…? Giù la maschera. Atteggiamento e controatteggiamento in ottica individual psicologica

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Riflessioni introduttive

a cura di Gian Piero Grandi.

Gli stimoli letterari e lo studio della individual psicologia hanno portato all’elaborazione e alla riflessione in merito ai concetti di atteggiamento e contro atteggiamento. È stato così possibile mettere in atto riflessioni vuoi inerenti il setting terapeutico che i contesti relazionali/ambientali. L’oggetto del lavoro: la realtà degli adolescenti e dei giovani adulti che possono riflettere tratti di personalità già narrati, in passato, dagli autori classici. Tra gli stimoli ricercati sono in rilievo la figura di Dorian Gray, giovane adulto della Londra Vittoriana ma con caratteristiche simili ai giovani moderni, e gli “eroi” delle anime giapponesi (modelli, se così si possono chiamare, nei quali spesso ci s’identifica allo scopo di trovare rifugio dalla realtà che spesso genera disagio).

Alla luce delle riflessioni riportate, è stato possibile considerare l’atteggiamento come insieme di credenze, convinzioni, valutazioni positive o negative inerenti comportamenti attuabili a livello esteriore; modi di essere e/o di presentarsi riconducibili all’esperienza. La soddisfazione dei bisogni determina in modo inconsapevole l’esigenza di dar vita a finzioni direttrici che orientano il movimento. L’atteggiamento può essere pertanto considerato come una manifestazione fenomenica dei bisogni inconsci; assume il ruolo di habitus da indossare a seconda delle occasioni che si presentano. Verranno così inscenati diversi ruoli atti a mostrare la persona non per come è realmente ma per come desidera apparire. Essere o non essere, dubbio amletico che porta alla riflessione seguente: mi accetto per come sono oppure ho bisogno d’indossare diverse maschere a seconda delle situazioni che si possono presentare? L’indossare troppe maschere può tradursi in una sfrenata danza di finzioni spesso adoperate allo scopo di dare un senso alla noia e ai vissuti di vuoto che possono attanagliare la persona e le sue relazioni. La moderna società porta a viversi come all’interno di un’illusione: alla civiltà del disagio, vittima di quel senso di noia che può portare al sentirsi e al viversi come impotenti. Viene così a crearsi il mondo del “come se”, influenzato dalla realtà esterna e interna. L’esperienza emotiva che ne deriva può inscenare un cambiamento positivo o negativo delle finzioni che decidiamo di mettere in atto.

Nelle relazioni e, conseguentemente, all’interno del setting terapeutico è opportuna la lenta acquisizione degli strumenti atti al togliersi le maschere indossate. Il terapeuta dovrà mettere in atto il suo contro atteggiamento, il suo modo d’essere a livello esteriore. Nel farlo dovrà rispettare i tempi del paziente; andare alla ricerca del paradigma indiziario prestando particolare attenzione alle zone di luce e di ombra che si possono incontrare. Si mostrerà a cuore aperto mostrandosi per come è realmente, pronto ad accogliere, ad “abbracciare”… a infondere speranza facendosi carico dell’altrui sofferenza. L’uomo, la persona, il terapeuta se potesse parlare concluderebbe questa breve riflessione con: “Ama l’imperfetto tuo prossimo con l’imperfetto tuo cuore”.

  1. Atteggiamento e controatteggiamento

a cura di Annarita Carena.

Con il termine atteggiamento s’indica la disposizione di ogni persona di produrre risposte emotive,sentimentali, comportamentali, determinate dall’ambiente familiare, sociale o lavorativo, riguardo a situazioni, gruppi o oggetti. In quest’ottica l’atteggiamento viene costruito nell’interazione con gli altri significativi e nella sua determinazione risulta infatti importante ciò che noi riteniamo essere rilevante per loro, ciò che pensiamo di essere, di voler e dover essere.

Noi ci modelliamo e siamo modellati dalla relazione con l’altro (il prof. L. G. Grandi insegna che il Sé non si struttura se non nella relazione) ma anche da tutto ciò che essa comporta: aspettative, desideri, paure…

In questo senso l’atteggiamento ha a che fare con il mondo finzionale del soggetto e si pone come sua manifestazione fenomenica: io penso ed agisco in base a quella serie di credenze, convinzioni e valutazioni (finzioni) che si sono formate nella relazione con il mio contesto di vita e che mi permettono di mediare tra i miei bisogni e la realtà, in una prospettiva finalisticamente orientata, ossia mirante al raggiungimento di una meta. Le convinzioni che stanno alla base delle finzioni del soggetto non sono necessariamente vere e comunque non sottoposte a conferme o verifiche, ma sono funzionali al suo equilibrio e al suo poter stare nel mondo, ma poiché spesso si pongono sul lato non utile della vita, imprigionano il soggetto in credenze e comportamenti che in realtà sono per lui mortiferi. L’atteggiamento è quindi la manifestazione di bisogni inconsci che si sono creati nella relazione con l’ambiente di vita del soggetto e più in generale del suo stile di vita.

In questo senso la terapia si pone come mezzo utile allo smascheramento e allo smantellamento delle finzioni del paziente che deve essere aiutato a ritrovare il suo Sé creativo più che riproporre coattivamente degli schemi.

Nell’incontro con il terapeuta, quindi, il paziente non può comportarsi diversamente rispetto a come fa con il resto del suo contesto di vita: l’atteggiamento che avrà nei suoi confronti sarà necessariamente improntato alle stesse finzioni che lo guidano nel suo essere nel mondo. Ecco quindi che il paziente “mente e mente sempre, all’altro e a se stesso, pur spesso non sapendolo e non volendolo coscientemente fare, presentandosi attraverso una serie di maschere utili però al suo poter stare nel mondo”(cit. prof. L. G. Grandi). Queste finzioni però, a volte diventano disfunzionali e patogene dal momento che il soggetto è giunto alla consultazione.

Gli atteggiamenti sono difficilmente attaccabili e modificabili poiché sono funzionali al soggetto nella lettura della realtà e nel suo potersi muovere in essa, ma nascondono e schiacciano l’autenticità del soggetto, la sua parte creativa e vitale. Il soggetto è imprigionato nel “non essere”, dove l’essere autentico può invece essere raggiunto con la terapia. Qui s’inscrivono le resistenze alla terapia che quando funziona è vissuta come un attacco alla propria stabilità.

Quando i pazienti arrivano in terapia agiscono come fanno con tutti gli attori del proprio contesto di vita, pensando ed agendo in base alle convinzioni che informano il loro stile di vita, proponendo quell’immagine di sé che sentono reale e che devono difendere, proponendo stili relazionali appresi ed ormai incarnati.

1.1. Dubbio amletico…la rappresentazione teatrale insegna

Amleto – nelle vesti di moderno terapeuta – rivolgendosi al teschio s’interroga rispetto all’essere non autentico della finzioni (non essere) e la riscoperta del proprio sé autentico (essere). Il soggetto nell’altro vede se stesso, un portatore di uguali bisogni, di stesse concezioni del mondo e della vita, di uguali convinzioni e credenze. La finzione si muove all’interno di un’ottica privata di riferimento, è autocentrata poiché mira al soddisfacimento di un bisogno sottostante che però è privato. L’uomo perciò fatica a vedere l’altro e se lo vede lo fa con i suoi occhi, attraverso i suoi schemi e la sua logica, fatica a riconoscere e accettare l’alterità, le differenze, i diversi punti di vista.

Discorso simile per il terapeuta e qui si entra nel campo del controatteggiamento: da una parte egli può “prestare la sua testa” al paziente, adottare il suo punto di vista, cioè entrare nella sua finzione per aiutarlo con il tempo a comprenderla, elaborarla e restituirla bonificata, offrire un contenitore di pensieri, emozioni e un nuovo apparato per pensare, nuovi punti di vista e alternative. E’ anche il terapeuta che offre parti di sé utili alla terapia, mette al servizio del paziente le sue parti sane e attraverso la sua messa in gioco crea quel clima utile al cambiamento. D’altra parte anche il terapeuta può correre il rischio di “perdere” la testa, di vedere se stesso nel paziente, di perdere le distanze confondendosi con lui, non riuscendo a mantenere i confini tra sé e l’altro, con il rischio di dare risposte proprie al bisogno dell’altro. Al contrario il terapeuta può mettere troppa distanza vedendo il paziente come esclusivamente altro da sè con il quale non è pronto, per vari motivi, a condividere nulla. E’ come se il paziente e il terapeuta fossero due mondi completamente separati che non possono comunicare fra loro né tanto meno comprendersi. Questo a volte perché anche il terapeuta può muoversi all’interno di una sua finzione di cui però non è consapevole e che non è debitamente gestita.

Da qui l’importanza per il terapeuta di cercare di avere chiaro cosa si sta giocando nella relazione, non solo da parte del paziente ma anche da parte sua. Da cosa sono dettate le sue reazioni, il modo di stare con il paziente e gli atteggiamenti nei suoi confronti: da una parte dalle proiezioni del paziente per cui l’analisi del controatteggiamento aiuta a comprendere come sta e cosa egli prova, dall’altra anche dai nuclei più o meno “patogeni” del terapeuta, dalle sue zone d’ombra, dal suo stile di vita, dalle sue credenze e dalle sue finzioni che però egli deve riconoscere al fine di non inficiare il lavoro terapeutico.

Atteggiamento e controatteggiamento, quindi, possono considerarsi quali manifestazioni fenomeniche che affondano le loro radici nell’inconscio, sono la parte manifesta di elementi e bisogni inconsci che devono essere disvelati, collocati ed elaborati, sia nel paziente che nel terapeuta.

  1. Quando lo stile di vita abbraccia la finzione

a cura di Maria Luisa Giardina.

Se consideriamo gli atteggiamenti come un insieme di credenze, convinzioni, valutazioni positive o negative di un qualcosa, si rende necessario, in una riflessione a ritroso, porre attenzione al concetto di finzioni, da intendersi come idee soggettive che portano in sé elementi consci e inconsci, tali da mettere l’uomo nella condizione di mediare tra i propri bisogni e la realtà. E’ la necessità di soddisfare, in parte o del tutto, un bisogno, sia esso sano o patologico, a determinare, in modo inconsapevole, l’esigenza di dar vita a finzioni direttrici che orientano il movimento. L’atteggiamento, che potrebbe intendersi come la manifestazione fenomenica dei bisogni inconsci, può assumere valenza positiva o negativa, in base alla soddisfazione del bisogno sottostante.

I bisogni dipendono dalla personalità, in quanto il concetto di sé è composto non tanto da quello che si è, ma da quello che gli altri significativi pensano che noi siamo. È importante quello che si pensa di essere, che si vuole diventare, in base alle credenze, alle idee, alle opinioni, che ci siamo fatti di noi stessi, partendo dalle aspettative e dai giudizi delle persone importanti per noi.

Un atteggiamento può essere definito stabile se è in grado di soddisfare numerosi bisogni e se tali bisogni sono prioritariamente collocati per la persona, ovvero se il sistema finzionale è sufficientemente rafforzato.

A seguito di tali premesse, si ritiene opportuno procedere rivolgendo particolare attenzione a quanto accade all’interno del rapporto terapeuta/paziente, che vede la coppia analitica impegnata ad affrontare il lento e complesso lavoro di smantellamento delle finzioni rafforzate, che determinano il disfunzionale stile di vita del paziente, in cui le ferite originarie hanno reso necessario il costituirsi di un mondo del “come se”, che permettesse al paziente di trovare un equilibrio tra il bisogno sottostante e la realtà.

Il compito che l’analista si trova a dover affrontare è alquanto arduo, considerando che le credenze e le convinzioni di base, su cui l’intera personalità del paziente si fonda, sono difficili da cambiare; è più facile, infatti, farsi un’opinione che cambiarla. Le ragioni di tali difficoltà sono da ascriversi alle resistenze che l’inconscio mette in atto per difendere le sue convinzioni, non tanto per la bontà di queste ultime, ma per non incorrere nella frattura dell’equilibrio illusorio e irreale creato dalla finzione, per non cadere in quel caos, che metterebbe in difficoltà la personalità del soggetto e il suo stile di vita. Da tali accadimenti deriverebbe la faticosa ricerca di un nuovo equilibrio.

L’analista impegnato nel promuovere e garantire un maggior benessere al paziente si trova ogni volta, nella condizione di dover tenere conto di elementi che riguardano il paziente e il suo stile di vita, con elementi che riguardano se stesso e il proprio stile di vita. L’empatia, intesa come la capacità di entrare in contatto con l’altro, vibrando con lui, permette all’analista di raggiungere il paziente in quello spazio di confine in cui gli aspetti più profondi di entrambi s’incontrano, per poter meglio comprendere il linguaggio finzionale del paziente e gradatamente creare, insieme a lui, un linguaggio comunicativo fatto di una nuova simbologia finzionale, condivisa da entrambi e che permetta all’analista di poter creativamente creare circuiti elaborativi condivisi; è in questa dimensione che l’analista, capace di tenere conto dell’altro e di sé, può prendere per mano il paziente e accompagnarlo verso quel difficile percorso di cambiamento, che dovrebbe facilitare il disvelamento delle finzioni e promuovere atteggiamenti che vanno verso il lato utile della vita.

L’analista deve sempre avere in mente le proprie zone grigie, che inevitabilmente vengono sollecitate dalle proiezioni transferali, originatesi dall’incontro con l’altro, in cui sono presenti una molteplicità di sentimenti, non sempre consci, che possono determinare atteggiamenti inadeguati da parte del terapeuta e che metterebbero in crisi il processo di cambiamento.

Al fine di essere il primo agente terapeutico, l’analista deve conoscere a fondo se stesso e il proprio stile di vita, il proprio sistema di credenze e deve essere consapevole che stare con l’altro genera un incontro-scontro, costante e in via di sviluppo fra due stili di vita (atteggiamento e controattegiamento), in continua contaminazione; all’inizio il terapeuta deve accogliere e lasciarsi contaminare dallo stile di vita del paziente, per poterlo comprendere e fare proprio, per poter maneggiare profondamente un linguaggio a lui sconosciuto, che porta in sé diversi elementi che restano silenti e agiscono nel buio dell’inconscio. Nel progredire della terapia e della conoscenza terapeutica, quando la vicinanza emotiva della coppia si fortifica, il terapeuta promuoverà una contro-contaminazione del paziente con elementi del proprio stile di vita, in quanto il processo di cambiamento si genera dall’intreccio di elementi bonificati del paziente e di quelli del terapeuta, che inevitabilmente, in ogni incontro, dona parti di sé.

Il mondo del “come se”, distinto dal mondo della realtà, è comunque influenzato dalla realtà esterna, e dall’esperienza emotiva che di questa si fa, esperienza che imprime o può imprimere un cambiamento di forma alle finzioni direttrici.

  1. Dorian Gray: giovane adolescente moderno.

a cura di Gian Piero Grandi.

Com’è tragico” mormorò Dorian Gray, gli occhi fissi sul suo ritratto “com’è tragico”! Io diventerò vecchio, brutto, ripugnante. E questa immagine rimarrà sempre giovane. Giovane quale io sono in questa giornata di Giugno. Oh, se si potesse realizzare il contrario! Se io dovessi rimanere sempre giovane, e il ritratto diventasse vecchio! Per questo, per questo, darei qualunque cosa! Darei la cosa più preziosa del mondo! Darei anche la mia anima per questo!” (Oscar Wilde, Il Ritratto di Dorian Gray).

Cosa siamo disposti a fare pur di non perdere ciò a cui teniamo maggiormente; sino a dove può spingersi l’animo umano al solo scopo di mantenere invariata quella che si crede essere la propria immagine, il “mezzo” con il quale ci si mostra al mondo. La maschera che s’indossa allo scopo di confermare o innalzare l’immagine che si ha di sé.

Dorian Gray, giovane rampollo della Londra del XIX° secolo altro non è che un possibile antenato dell’adolescente moderno. Giovane uomo orientato esclusivamente alla soddisfazione dei propri bisogni. Individuo che perfettamente incarna lo spirito dell’individualismo, dell’Homo homini lupus (narratoci da Thomas Hobbes), di colui che “basta a se stesso”.

Sembra essere andato perduto il concetto di persona intesa, in ottica Individual psicologica: “io sono le mie relazioni”.

Dorian Gray, cade vittima dell’illusione e della speranza di poter restare giovane per sempre; tale sua convinzione si ridurrà esclusivamente a livello esteriore. La sua maschera resterà sempre giovane perdendo, però, i valori insiti nelle sua anima. La sua bellezza solo in superficie resterà intatta senza rendersi conto di quale mostro si nasconde dentro di lui. E così, in preda a questa folle illusione, decide di cambiare il proprio atteggiamento; intervenire sull’opinione che gli altri hanno di lui e sulla condotta da mettere in atto nella società.

Le sue risposte emotive subiranno delle modificazioni a livello sentimentale, comportamentale e determinate dall’ambiente famigliare, sociale e lavorativo. Il suo atteggiamento sarà il mostrarsi non per come è ma per come desidera apparire credendo che questa sua scelta lo possa portare alla felicità. Così, l’adolescente si mostra al mondo per come vuole apparire permettendo ai suoi demoni interiori di prendere il sopravvento sulla legge morale facendogli lentamente perdere la speranza di poter essere accettato e riconosciuto per come è realmente.

L’individual psicologia potrebbe intendere l’atteggiamento come una sorta d’involucro delle finzioni: idee soggettive comprendenti elementi consci e inconsci. Svolgono l’utile funzione di mettere l’uomo nella condizione di mediare tra i propri bisogni e la realtà, in una prospettiva finalisticamente orientata. Le finzioni sono immagini guida (Ansbacher H., Ansbacher R. 1956).

Il giovane Dorian necessita di crearsi delle rappresentazioni mentali inconsce al fine di ottenere conferme o verifiche che lui ritiene utili allo scopo di orientarsi correttamente nel mondo. E così il moderno adolescente, preda delle sue convinzioni, mette in atto dei comportamenti, dei modi di essere che ritiene rispecchianti la sua vera natura. Atteggiamenti che – parafrasando Alfred Adler (1912) – nelle situazioni difficili e incerte possono andare a rivestire il ruolo d’imperativi di legge, dell’ideale insito in noi e di ciò che riteniamo essere il libero arbitrio senza renderci conto che in realtà non ci possiamo considerare come liberi quanto piuttosto in balia di illusioni, di false credenze dimenticando i valori umani che sono stati trasmessi nelle principali tappe evolutive.

Nelle situazioni in cui non riescono a mostrarsi per come vogliono apparire vengono a trovarsi come proiettati in un mondo buio, nell’oscurità che regna nel loro inconscio.

3.1. Io, i miei affetti, gli altri.

La psicologia sostiene come l’atteggiamento sia influenzato da una componente cognitiva, affettiva e comportamentale. Quella cognitiva è costituita dalle credenze associate alla valutazione globale che consta dell’atteggiamento tanto da portare alla messa in atto di comportamenti pianificati difficili da modificare poiché diventati parte del modo d’essere dell’individuo che li mette in atto.

La componente affettiva comprende i sentimenti, gli stati d’animo, le emozioni e le reazioni del sistema nervoso che accompagnano l’atteggiamento stesso. La componente comportamentale, infine,  può essere definita coma la spinta al compiere azioni vuoi esplicite vuoi implicite che sono alla base della valutazione che l’atteggiamento veicola.

L’atteggiamento può essere una manifestazione di come si è a livello esteriore mostrando non tanto ciò che si è quanto piuttosto quello che gli “altri” significativi credono che noi siamo: l’immagine sociale che si vuole mostrare costruita e costituita dalle aspettative e spesso influenzata dai giudizi delle persone di riferimento. L’atteggiamento mostrato può spesso rispecchiare capacità che ci sono state attribuite in seguito alle azioni messe in atto e che sono state ritenute come significative.

Conseguentemente non è tanto importante come si è realmente quanto piuttosto quello che si pensa di essere, che si vuole diventare, che si pensa di poter diventare. Le scelte comportamentali future rischiano di ridursi a un processo volto alla conferma dell’immagine di Sé; a una strategia volta a ufficializzare il “Noi” davanti agli altri. Può essere opportuno riflettere e prendere maggiormente in esame il contesto socio-ambientale e gruppale al fine di tenere sotto controllo i condizionamenti subdoli e la motivazione all’affiliazione o alla compiacenza.

Compito dell’uomo-terapeuta sarà quello – all’interno del setting terapeutico – di avvicinarsi, comprendere e svelare gli atteggiamenti che saranno inscenati dal paziente all’interno della seduta.

Dorian Gray, il nostro adolescente moderno, metterà in atto atteggiamenti favorevoli volti alla soddisfazione dei suoi bisogni. Incapace di accettarsi per ciò che è realmente cercherà di non entrare in contatto con quelli che possono essere i suoi limiti e farà il possibile al fine di superare il senso di vuoto che lo attanaglia. Il moderno giovane adulto viene a trovarsi come catapultato in una società governata da costanti vissuti di noia; dall’incapacità di trovare un senso alle situazioni che gli si possono presentare. A tale scopo metterà in scena atteggiamenti molteplici che non rispecchiano il suo reale modo d’essere quanto piuttosto disparate maschere da indossare a seconda delle situazioni.

Dorian, ragazzo a cui apparentemente non manca nulla, è incapace – come la maggior parte dei giovani d’oggi – di accettarsi e riconoscere i suoi possibili limiti. La moderna società lo porta a viversi come all’interno di un’illusione: un mondo fittizio orientato esclusivamente al principio del piacere e all’immediata soddisfazione dei bisogni da raggiungere con qualunque mezzo (lo scopo giustifica i mezzi).

Sembrano essersi quasi perduti i principi della morale tanto decantati nel passato da Aristotele e più successivamente da Kant.

Agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere sempre e al tempo stesso come principio di una legge universale…”(I. Kant, Critica della ragion pratica, 1788). L’imperativo categorico Kantiano sopra citato ha ormai perso il suo valore; l’adolescente – Dorian Gray – incapace di fare sacrifici e spinto esclusivamente da una spasmodica soddisfazione dei suoi bisogni sembra viversi alla stregua di un “guscio vuoto” che ha bisogno di riempire senza badare ai mezzi che potrà mettere in atto.

Lentamente verrà incarnato lo spirito del narcisista patologico volto alla ricerca del piacere in cui l’altro è visto e considerato come oggetto parziale. Dorian è giovane, bello, incapace di amare, di provare emozioni, di costruire relazioni soddisfacenti. I compiti vitali – alla base della teoria Adleriana – non sono minimamente presi in considerazione; è come se non venissero ritenuti necessari. Pensa di poterne, tranquillamente, fare a meno: il senso della vita pare essere volto al bisogno di accrescere al massimo l’immagine che si vuole dare, come si crede di essere.

Le relazioni sono costruite su strategie volte all’inganno del prossimo, a far credere all’altro di essere importante; di essere apparentemente disposti a tutto per l’altra persona e una volta raggiunto l’obiettivo se ne cerca un altro più difficile da raggiungere. Così facendo non ci sarà più la ricerca del desiderio ma del “desiderio del desiderio” inoltrandosi sempre più in un circolo vizioso che porta lentamente al formarsi di un’organizzazione di personalità patologica. Il Dorian Gray moderno sarà spinto costantemente da questa sua ricerca e indosserà le più disparate maschere a seconda delle situazioni che gli si presenteranno. Maschere che hanno lo scopo d’inscenare i suoi atteggiamenti vuoi nella vita quotidiana vuoi all’interno del setting terapeutico. Gli amici lentamente diminuiscono poiché la ricerca del piacere lo porterà a “calpestare” i valori dell’amicizia sino a trovarsi completamente solo. Così come Dorian Gray, accuratamente descritto da Oscar Wilde, non sarà affatto disposto a riconsiderare il proprio comportamento. Resterà intatta la sua convinzione di essere perennemente “giovane” non curandosi dell’oscurità che si cela dentro la sua anima. Nel “nostro” Dorian vige la speranza di poter cambiare, di poter modificare il proprio comportamento in ogni momento ma gli atteggiamenti messi in atto lo portano a diventare una personalità dipendente dalle sue false credenze dalle quali non riuscirà facilmente a liberarsi.

Regnerà in lui un modus vivendi in balia dei vizi capitali; ogni qualvolta che crederà di essere in possesso di tutto ciò che desidera si renderà conto, invece,  di essere una persona vuota e invidiosa di ciò che gli altri possiedono. La ricerca del piacere gli farà assumere l’atteggiamento dell’Homo eroticus (L’erotismo, George Bataille, Oscar Mondadori, 1969) dominato dalla ricerca dell’estasi e dalla voluttà. L’amore e la morte diventano i poli opposti che definiscono e circoscrivono l’erotismo. Crederà di sentirsi realizzato nella sua pienezza solamente quando avrà raggiunto e provato situazioni limite sconcertanti poiché, come sostiene Bataille, “dell’erotismo si può dire innanzitutto che esso è l’approvazione della vita fin dentro la morte…”.

Dorian nella sua vita si è spinto oltre ogni limite per soddisfare il suo piacere; allo scopo di non “affogare” i suoi impulsi si è macchiato di crimini che hanno portato alla privazione della vita di altri uomini.

L’adolescente quando comincia a toccare con mano che i suoi atteggiamenti lo stanno portando non alla costruzione di una sana immagine di Sé quanto piuttosto alla distruzione dell’identità e dell’essere uomini…quando si rendono conto che ormai è rimasto solamente il “non essere” possono chiedere aiuto vuoi alle persone da loro ritenute significative vuoi a noi terapeuti.

Ma così come nella vita anche all’interno di un contesto terapeutico, l’adolescente fatica ad abbandonare i suoi atteggiamenti. Risulta difficile togliersi la maschera e guardarsi allo specchio; Dorian ha paura di guardare il suo ritratto e scoprire chi è e cosa è diventato. Tale emozione di paura può portare a mantenere, in parte, gli atteggiamenti messi in atto anche all’interno del setting terapeutico. Abbandonare le finzioni che si sono costruite e consolidate spaventa; accettare il cambiamento costa fatica e bisogna essere disposti a ri-mettersi in discussione. Sarà compito del terapeuta mettere in atto un attento e meticoloso lavoro di ricerca del paradigma indiziario (prof. L. G. Grandi) volto alla ricerca del non detto; di ciò che si ha paura di fare emergere.

Il terapeuta sarà a contatto con gli atteggiamenti che verranno inscenati e dovrà mettere in atto un contro-atteggiamento volto alla cura e al disvelamento delle finzioni che gli saranno presentate. Sarà messa in atto la reazione emozionale del terapeuta, una reazione che si manifesta a livello esteriore e che sarà nei confronti del paziente. Una reazione volta ad aiutarlo a togliersi le varie maschere indossate e mostrarsi per come è realmente non per come vuole o ha bisogno di apparire. Ma al fine che ciò si manifesti sarà compito del terapeuta il mostrarsi lui per primo per come è realmente. Dovrà fare in modo di mettere in campo emozioni che rappresentano lo stile di vita del terapeuta, non disparate finzioni volte a mostrarlo per ciò che desidera di essere.

All’interno del percorso terapeutico sarà, altresì, opportuno rispettare i tempi del paziente al fine di permettergli d’entrare gradualmente in contatto con le sue risorse. Può risultare fuorviante smascherare gli atteggiamenti che vengono messi in atto quando non si è ancora pronti. Winnicott sosteneva l’importanza di aspettare, aspettare e ancora aspettare; le persone con le quali ci rapportiamo non sono tutte uguali, hanno diversi tempi che devono essere rispettati.

Un avvicinamento messo in atto in momenti non opportuni può generare reazioni inaspettate; è opportuno comprendere quando può essere il momento di avvicinarsi e accogliere il nostro paziente.

Il nostro Dorian, che crede di aver perso la speranza, dovrà raggiungere un adeguato livello di fiducia nei confronti del “suo” terapeuta al fine di permettergli di avvicinarsi a lui; lentamente arriverà ad affidarsi così da poter entrare maggiormente in contatto con le sue emozioni e correttamente collocarle e riconoscerle.

Spesso può capitare che l’adolescente metta in atto atteggiamenti dovuti ai modelli che ha acquisito nel corso della sua vita, nelle esperienze che ha vissuto. Se, per esempio, ci si rapporta con persone che disprezzano e svalutano l’altro può capitare che la “vittima in questione” riconosca come suoi personali esclusivamente atteggiamenti che rimandano al disprezzo e può conseguentemente mettere in atto comportamenti che lo porteranno a sentirsi come tale. Da notare come quello che si crede di essere rischi di diventare sempre più reale sino a nascondere vuoi a noi stessi vuoi agli altri il nostro vero essere, le nostre reali risorse.

Compito terapeutico è il favorire l’abbandono delle false credenze portando a un accrescimento dell’autostima e al riconoscimento delle risorse.

L’adolescente, il “nostro” Dorian moderno, spesso in preda ai vissuti di vuoto e di noia che lo avvicinano lentamente alla perdita della speranza, si abbandona all’oscurità e ai fantasmi della sua anima. Nella fatica del riuscire a dare un senso alla sua vita, è alla ricerca di “mondi” nei quali rifugiarsi. Luoghi nei quali solo lui può entrare, dimensioni inaccessibili agli estranei che lo possono lentamente portare a chiudersi in se stesso e fantasticare su possibili atteggiamenti e comportamenti da mettere in atto. Nel suo percorso di crescita s’imbatte nei suoi demoni istintuali provando ad affrontarli e non riuscendo, però, sempre a ricorrere correttamente alle proprie risorse. Disparati possono essere i luoghi nei quali nascondersi, nei quali cercare riparo e incontrare, invece, i “demoni”.

  1. L’ “Anime”: atteggiamenti mascherati di modernità

a cura di Gian Piero Grandi e Stefania Torriano.

Si vuole concentrare l’attenzione sulle “anime” giapponesi: oggetto di particolare interesse per gli adolescenti e per i giovani adulti.

L’adolescente moderno, come affermato in precedenza, può tranquillamente vestire l’habitus di Dorian Gray oppure quello di Light Yagami protagonista del manga e anime “Death Note”. Chi è Light Yagami? Rappresenta il classico adolescente modello in possesso di tutto ciò che si può desiderare: di bell’aspetto, capace di ottenere il massimo dei risultati scolastici senza il minimo sforzo, circondato da amici e ragazze. Apparentemente sembra non mancargli nulla, eppure non è soddisfatto dei suoi talenti. Sono presenti in lui innumerevoli vissuti di noia e fastidio per la monotonia della sua vita. Vorrebbe dare un senso alla sua vita, non contento per ciò che è vuole mostrarsi per come desidera essere. Un giorno trova il “Death Note”: un quaderno dai poteri oscuri che un dio della morte ha lasciato cadere sulla terra. Se si scrive il nome di una persona, della quale si conosce il volto, sul quaderno quest’ultima muore per arresto cardiaco dopo 30 secondi. Oppure possono essere specificate le cause della morte. Light ottiene la facoltà di poter decidere della vita delle persone. Inizialmente decide di ripulire la terra di tutti i criminali allo scopo di creare un mondo migliore senza rendersi conto che lentamente si sta trasformando in un “mostro”. Come può un uomo decidere il destino di un altro uomo. Il Death Note per Light Yagami può avere la medesima funzione del ritratto per Dorian.

Light, Dorian,…l’adolescente…uniti dal medesimo vissuto di vuoto, di solitudine, di abbandono sono alla ricerca di un atteggiamento che li possa mostrare per quello che non sono; per ciò che vogliono apparire credendo di trovare così la felicità, di potersi sentire realizzati. Illusione: non si rendono conto di vivere all’interno di un mondo fittizio, di essere vittime delle finzioni che si sono costruiti.

Il Light adolescente si mostra come un ragazzo pulito del quale potersi fidare ma altro non è che un “guscio” vuoto. La sua anima è nel quaderno che lentamente viene riempito di nomi. Light si sta lentamente trasformando in un dio della morte, non riesce a riconoscere la negatività delle sue azioni e si crede invece una sorta di salvatore. Pur di giungere alla realizzazione di se stesso è disposto a sacrificare le persone a lui care. Come Dorian, incarna lo spirito del narcisista patologico; come Dorian ha bisogno di qualcuno che lo possa aiutare ad abbandonare gli atteggiamenti messi atto e riconoscersi per come è realmente.

Light vuole elevarsi al livello di Dio e ci riesce trovando il Death Note, che, come la mela ad Adamo, gli viene consegnato da una creatura superiore, in questo caso uno shinigami, nel racconto biblico il serpente-diavolo.

Light tende a spingersi sempre oltre, sostenuto anche dall’idealizzazione che di lui fa la società, collaborando a tratti con Elle (figura che può coprire un ruolo terapeutico) vivendo quindi in modo onnipotente la finzione del “come se” non dovesse mai essere scoperto. D’altra parte, il controatteggiamento di Elle è molto cauto. Fin dall’inizio i suoi sospetti ricadono su Light, ma cerca di non far trapelare nulla in un lento processo di avvicinamento per rispettare e non affrettare i tempi allo scopo che possa instaurarsi l’alleanza terapeutica. Collabora con lui, diventando quasi suo amico, tentando prudentemente di non svelare la sua finzione prima del dovuto tempo. È proprio quando tale finzione rischia di non tenere più, cioè quando Elle sta per smascherare la vera identità di Light, diventando quindi un pericolo, che il giovane adolescente si vede costretto a uccidere il “suo terapeuta”.

La prima parte dell’anime è molto incentrata dal reciproco rincorrersi dei due personaggi principali: ricerca, dubbi, sospetti, accorgimenti e proprio quando sembrano essere più vicini alla verità ecco che se ne allontanano.

La maschera, però, prima o poi è destinata a cadere. Sarà, infatti, il successore di Elle, Near, a svelare quella finzione che era parte di lui da tanto tempo. A questo punto Light non può sopravvivere: la sua ritrovata natura umana non è abbastanza per lui; non si riconosce più, ha smarrito il suo essere persona.

L’ “Anime” e la situazione affrontata lasciano spazio a riflessioni sul senso di vuoto sperimentato da alcuni adolescenti, vuoto che in qualche modo si tende di colmare con l’immersione in una realtà parallela costituita dai personaggi di manga ed anime giapponesi (per esempio). Questi, infatti, con i loro temi rispondono a molti dei bisogni degli adolescenti, come la lotta contro una parte oscura e l’identificazione con dei personaggi forti. Il rischio è però quello di estraniarsi in questo modo dalla realtà sociale che li circonda e il lavoro terapeutico, in questi casi, è quello di utilizzare l’anime per entrare in relazione con il ragazzo, facendolo sentire capito e accolto, utilizzandolo anche per farlo parlare di sé in maniera più indiretta, per poi cercare di riportarlo al mondo reale.

Non sempre risulta possibile come nei casi affrontati di Light e Dorian per i quali vuoi i loro “terapeuti” non si sono mostrati capaci di mettere in atto adeguati  contro-atteggiamenti vuoi i due adolescenti non avuto la predisposizione a fidarsi e mettersi in gioco.

  1. Controatteggiamento: lavoro del terapeuta

a cura di Francesca Falbo.

Ciò che porta al cambiamento in terapia è la relazione e quindi il poter fare esperienza, da parte del paziente, di una nuova modalità relazionale, modalità che è sicuramente caratterizzata dal suo modo di fare e porsi e da quello proprio del terapeuta.

Gli atteggiamenti che ognuno si porta dentro guidano il suo comportamento e derivano dall’ambiente familiare e sociale: essi si attivano in seguito  a movimenti emotivi che determinano una particolare  tendenza conscia di porsi.

Gli atteggiamenti sono manifesti e ci aiutano ad affrontare la realtà: sono qualcosa che indossiamo in seguito a delle sensazioni emotive.

Attivano nella persona che abbiamo davanti un controatteggiamento: in terapia, per quanto neutrali si cerchi di essere, le modalità di porsi dell’altro stimolano nel terapeuta una serie di risposte, alcune inconsce e altre consce che guidano il suo addentrarsi nello stile di vita del paziente.

Il terapeuta non si pone allo stesso modo con tutti i pazienti, non è una macchina e l’atteggiamento del paziente farà sì che il clinico risponda a esso tramite le emozioni che gli smuove.

Se vediamo gli atteggiamenti come dei vestiti che indossiamo a seconda delle occasioni possiamo pensare che essi derivino dal contesto di crescita dell’individuo e che possono riguardare anche il modo con cui egli vuole farsi vedere e conoscere.

Pensando al lavoro con gli adolescenti questo ‘indossare’ appare forse più chiaro: l’adolescenza è un periodo di cambiamento repentino, di ridefinizione di sé stessi, di passaggio dal bambino che si era, all’adulto che si sarà: cos’è che può ancora guidare l’adolescente  in questo mare di cambiamenti? Probabilmente il mostrare ciò che si ritiene significativo per sé, il mostrarsi con addosso una modalità che faccia riconoscere chi lui sia, il costruirsi, quindi, un atteggiamento da indossare quando necessario.

In terapia sarà grazie alla risposta del terapeuta e (quindi al suo controatteggiamento) che il paziente potrà conoscere una nuova modalità con cui approcciarsi al mondo e con cui potrà usare dei ‘nuovi vestiti’ da indossare.

Il terapeuta può farsi aiutare dal controatteggiamento che sente voler porre in essere mediandolo, chiedendosi perché quel paziente gli provoca quella modalità di porsi e restituendola  in modo comprensibile all’altro.

  1. Il gruppo di supervisione del venerdì pomeriggio s’incontra: riflessioni conclusive

a cura di Luca Burdisso.

L’atteggiamento sembrerebbe proporsi attraverso le finzioni e dunque, così come queste possono talvolta essere rigide e pervasive (diffuse in modo penetrante nei vari ambiti di vita) anche un atteggiamento può riscontrare le stesse difficoltà.

Talvolta ci accorgiamo che gli obiettivi di una psicoterapia percorrono il cambiamento di atteggiamento del paziente e necessitano quello del terapeuta.

Potremmo forse un po’ azzardando ritenere che la trasformazione e messa in discussione dell’atteggiamento del terapeuta sia elemento fondamentale per il cambiamento di quello del paziente.

E’ dunque un fatto significativo il poter riconoscere un atteggiamento ma lo è anche immaginare quali siano i passi e le prospettive per un cambiamento di questo.

I due passaggi, riconoscimento e cambiamento, vanno forse di pari passo.

Ci sembra di poter osservare che un fattore significativo per limitare la rigidità del contro atteggiamento del terapeuta in una relazione specifica sia l’acquisizione e il confronto di dati e narrazioni che riguardano il paziente da parte dei genitori, per l’infanzia, o di altre figure con le quali è possibile dialogare.

Banksy, “Non dimenticare di mangiare il tuo pranzo e fare un po’ di casino”

Il confronto con il gruppo di supervisione ha fatto emergere che un rischio fuorviante potrebbe essere il considerare i dati provenienti dall’esterno e le informazioni narrative che acquisiamo sul paziente come dati di realtà.

Sarebbe molto pericoloso. Se riteniamo infatti che atteggiamento e contro atteggiamento siano manifestazioni consce di movimenti emotivi, identificatori e in generale transferali e controtransferali non possiamo ritenere oggettivabile l’osservazione che noi abbiamo del paziente.

Gli stessi dati che provengono dalla famiglia e dal contesto riguardanti il paziente sono dunque rappresentazioni e narrazioni ma non dati di realtà.

L’immagine disegnata da Banksy ci permette di ipotizzare che talvolta un controatteggiamento, in questo caso del ragazzo di rimando a quello della madre, se reiterato e adatto a sopravvivere in un determinato contesto possa strutturarsi come atteggiamento.

Sembrerebbe che atteggiamento e controatteggiamento si strutturino come strategie per adattarsi e sopravvivere a un dato ambiente: famiglia, scuola, lavoro, relazioni affettive.

Per questo motivo i dati e le narrazioni che provengono dall’esterno possono essere davvero significativi per meglio comprendere alcuni aspetti della relazione con il paziente.

Ci si può chiedere dunque se e come questi elementi possano contribuire alla modificazione dell’atteggiamento

Un’altra via che ci sembra possa facilitare il riconoscimento di un atteggiamento e del percorso che l’ha costruito è quella di indagare e trovare indizi in seduta che permettano di individuare la discrepanza tra la rappresentazione della realtà che propone il paziente e i dati di realtà (per quanto generalmente non oggettivabili).

Insegnamento del professor Grandi è il mettere in atto un lavoro volto a indagare con sollecitudine in seduta, al cercare indizi, a evitare d’incorrere nel rischio di non cristallizzare rappresentazioni di se sull’altro.

La prassi operativa, nell’Istituto di Psicologia Individuale “A. Adler”, nelle terapie dell’infanzia prevede che un professionista lavori con l’adulto e un altro differente con il minore.

Questo lavoro in relazione permette di aggiungere e confrontare dati e narrazioni per meglio riconoscere l’atteggiamento del paziente e il nostro controatteggiamento.

Dal confronto con i colleghi sul percorso psicoterapico con i pazienti possiamo cogliere alcune tracce del nostro controatteggiamento o altre sfaccettature per arricchire e non irrigidire al nostro sguardo il suo atteggiamento.

Le nostre relazioni professionali permettono dunque di rivedere atteggiamento e controatteggiamento.

Ci sembra dunque importante sottolineare l’importanza di un lavoro di supervisione in gruppo, momento nel quale noi stessi possiamo attraverso i rimandi degli altri trovare conferme di alcuni aspetti del nostro atteggiamento oppure deluderne altri. Potremmo inoltre rivedere e soprattutto arricchire con sfumature alcune nostre rappresentazioni archetipiche (la madre, il figlio, il padre, il padre defunto, il nuovo compagno della madre, i genitori adottivi) limitando il rischio che queste s’irrigidiscano e di conseguenza irrigidiscano il nostro atteggiamento quando ci confrontiamo con esse.

“Essere o non essere” sembra dunque declinarsi ora come “Riconoscere e confrontare”.

Ma patologia può essere ritenuta un atteggiamento?

Se così fosse ci vorrebbe davvero molta esperienza per allenare il proprio sguardo al riconoscimento del proprio controatteggiamento con alcune specifiche patologie o disturbi.

La parola “esperienza” ci sembra faccia proprio riferimento alla possibilità favorita anche dal tempo di confrontare e rivedere con colleghi e didatti le sedute e i nostri atteggiamenti.

Un atteggiamento che ci sembra si presenti con buona frequenza in adolescenza è il distacco, la distanza dalla vita, dalle passioni, dal proprio mondo interno.

Una distanza che possiamo talvolta riconoscere nella difficoltà del paziente adolescente a raccontarsi e trovare parole.

Il controatteggiamento che talvolta riscontriamo in noi con questi soggetti e che emerge dal confronto in supervisione di gruppo è spesso di fastidio, impotenza, rabbia.

Sembrerebbe dunque che questa distanza o difficoltà a proporre parole che medino la relazione possa essere una forma di aggressività.

Forse è una forma di aggressione nei confronti di uno stile di vita operativo, colloquiale, che insegue l’aspirazione alla superiorità.

Una teoria, in questo caso quella individual psicologica (in particolare aspetti come l’aspirazione alla superiorità, il sentimento sociale,…), può rischiare di proporsi come atteggiamento che irrigidisce una relazione terapeutica ingessando l’uno e l’altro in ruoli e aspettative?